(n. Tagaste 354 – m. Ippona 430 d.C.)
Agostino, giunto a un certo punto della sua vita, volle fare una considerazione sulla religiosità. Scrisse, dunque, nel testo suo più conosciuto:
L’uomo tende a Dio, perché ci ha fatti per Sé e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Lui.
Dammi o Signore, di conoscere e capire se si debba prima invocarti e celebrarti, oppure conoscerti e cercarti. Che io ti brami, o Signore, invocandoti e t’implori credendo in te, per la fede che mi hai dato.
Perché invocare Dio? Invocarlo significa invitarlo a entrare nel nostro cuore! Chiamarlo perché dimori con noi.
Che cos’è, dunque, il mio Dio? Che cos’è, se non il Signore, l’Altissimo, immensamente buono, potentissimo, onnipotente, misericordioso e insieme giustissimo, a tutti nascosto eppure a tutti presente, completa bellezza, immensa forza, sempre uguale a Se stesso: immutabile.
La mia infanzia è morta da tempo, eppure io vivo. Tu invece, Signore, sei sempre vivo e nulla di Te muore, poiché prima che iniziassero i secoli e ogni cosa, prima ancora che si potesse dire “prima”, Tu sei, e sei Dio e Signore di ogni cosa.
Esistevo, ero vivo già allora! Un essere vivente fatto così, da dove può venire se non da Te, Signore?
Forse c’è qualcuno capace di auto generarsi? O c’è, forse, qualche sorgente da cui sgorghi a noi l’essere e la vita, che abbia origini altrove e non in Te che ci crei, Signore?
Per Te “esistere e vivere” non sono due realtà distinte, poiché Tu sei insieme il Sommo essere e la Somma vita.